Le rovine maledette

Si racconta che Remkha, conosciuta dalle genti del vecchio mondo come la Città di Rame, traesse il suo nome dalle lastricate strade arrossate dal sole e dalle guglie splendenti d’ottone più che dalle ricche miniere che scavavano a fondo le radici della Zanna, le cui lunghe ombre lambivano all’alba le acque del grande mare. Qualunque fosse la verità, era ben noto che la ricchezza della Città di Rame non era certo dovuta al minerale che transitava sulle sue strade, quanto al commercio degli schiavi che a centinaia varcavano senza speranza i suoi spietati cancelli d’ottone.

Quando Chandra aprì gli occhi, si trovò sotto lo sguardo interessato o indifferente degli altri naufraghi superstiti. Qualunque cosa fosse accaduta, non vi era modo per la sua mente di ricordare nulla, se non il proprio nome. Dakkar e Jack Faust si misero immediatamente alla ricerca di qualcosa di utile in mezzo ai resti del relitto, imitati da tutti gli altri di lì a poco; dopo alcuni minuti, recuperato un ben misero bottino, i sette naufraghi si misero in marcia, desiderosi di affrontare eventuali ostacoli mentre i morsi della fame erano ancora lontani.

La giungla che circondava la baia offriva un folto e soffice sottobosco su cui camminare, per quanto si facesse sempre più intricato con il procedere del gruppo, costringendo Drakkar ad aprirsi la strada alla meno peggio, utilizzando prevalentemente la forza delle sue poderosa braccia. Gli insetti, presenti in grandi quantità e forme, non davano alcuna tregua alle carni degli avventurieri, mettendo alla prova la loro resistenza tanto quanto la loro pazienza. I naufraghi si erano addentrati solo da qualche decina di minuti nella folta giungla quando Chandra notò qualcosa di insolito: una trappola di cuoio e corde era stata fatta scattare ad una decina di metri, sebbene apparisse priva di alcun occupante.

Decisi ad investigare, i naufraghi si avvicinarono con circospezione, mentre Andrey tastava con fare esperto il terreno per evitare di cadere in una trappola simile. Due cadaveri, appartenenti a bestie semi-umane di piccola taglia, giacevano in prossimità della trappola, avvolti da cumuli di mosche ronzanti. Raddoppiando le precauzioni, gli avventurieri continuarono la loro marcia, cercando di mantenere per quanto possibile la stessa direzione, sino ad emergere innanzi ad un’alta parete di roccia scoscesa.

Dakkar, Isaac e Unghialunga scorsero un movimento sulla parete di roccia alla loro destra, come qualcosa che ne discendeva per il tratto più basso. Deciso ad investigare, Xirtam si fece avanti, seguito a breve distanza da Chandra, mentre gli altri si nascondevano, pronti a tutto.

Quando Xirtam e Chandra emersero finalmente dal sottobosco, si trovarono innanzi un corpulento e grasso individuo, dall’aspetto sgradevole, che si presentò arrogantemente come il loro padrone. Con un ghigno malvagio, rivelò apertamente che avrebbe sacrificato la vita di Xirtam per salvare la sua, intendendo portare con se Chandra per venderla al mercato degli schiavi di Enkara. Anche quando gli altri naufraghi emersero dalla giungla il suo atteggiamento rimase immutato, trasformandosi in aperta incredulità quando Dakkar gli sferrò un poderoso pugno fracassandogli il setto nasale.

Disarmato il mercante di schiavi, i naufraghi lo obbligarono a confessare il suo piano. Ancora incredulo, egli rivelò che la salvezza si trovava oltre un’immane portale di pietra, e che le piccole bestie semiumane detenevano la chiave necessaria per varcarlo. Quando gli avventurieri videro il portale di pietra, alto più di quindici metri, valutarono che sarebbero state necessarie almeno una cinquantina di braccia solo per spostarne una delle sue ante: tuttavia, il mercante di schiavi sapeva che la sua vita era appesa ad un filo e non diede altre spiegazioni agli schiavi ribelli. Isaac, fidandosi poco dell’individuo che apparentemente era stato il loro padrone, decise di legarlo saldamente con la corda rinvenuta da Xirtam, prima di obbligarlo a fare strada verso le rovine.

Quando gli avventurieri giunsero presso le antiche pietre, ai loro occhi apparve una vista impressionante. Le rovine ciclopiche di una cittadella, scavata nella roccia, si stagliavano sullo sfondo di un cielo grigio e cupo. La sola grandezza delle rovine bastava per schiacciare gli animi di chi le guardava, e instillò la convinzione in tutti i presenti che ad erigerle fossero state mani disumane. La vista dei naufraghi fu però subito attratta dalla massa di bestie semiumane che si stringevano in semicerchio ad un prigioniero: una donna stretta ai polsi da catene di ferro.

A malincuore, quasi tutti i naufraghi concordarono che il subdolo piano del mercante di schiavi era probabilmente il migliore: i mostri avrebbero sacrificato la malcapitata donna alle loro blasfeme divinità, per poi crollare sfiniti dalle loro droghe e disgustosi cibi speziati, rendendo molto più semplice rubare la chiave necessaria per oltrepassare il portale di pietra.

Tuttavia, nel momento in cui la donna veniva sacrificata, i naufraghi videro brillare distintamente un’affilata gemma che emanava un bagliore rosso: senza apparente motivo, si convinsero che quella doveva essere la chiave che cercavano. Attesero quindi un’ora prima di agire, ed oltrepassato un ponte gettato su un baratro di un fiume di lava, risalirono l’ampia gradinata di pietra sino ad un tenebroso arco oltre il quale erano spariti i selvaggi semiumani.

L’interno era avvolto nella tenebra, e lo schiavista, costretto ad aprire la strada, cadde ben presto in una trappola resa ancora più letale dal suo immane peso, sprofondando per oltre sei metri e finendo i suoi giorni trafitto da acuminati pali di legno. Senza versare una lacrima per il loro aguzzino, gli avventurieri procedettero risolutamente oltre, sino a trovarsi in una vasta sala, gremita dei brutali e piccoli semiumani che si contorcevano nei loro sogni drogati.

Nel centro della sala, illuminata da un fascio di luce che filtrava attraverso una spaccatura della volta, vi era una pozzo sul cui fondo giaceva il corpo della donna sacrificata un’ora prima. Accanto a lei brillava di un’intensa luce il cristallo rosso che gli avventurieri avevano visto in precedenza.

Decisa a recuperare il cristallo, Chandra si offrì di scendere nel pozzo, ma una volta giunta sul fondo, un’immenso rettile dalle scaglie di smeraldo emerse da una delle cavità, gettandosi contro di lei. Soltanto la fortuna, la paura o la grande abilità di Chandra le permisero di spiccare un balzo prodigioso verso la corda tesa da Dakkar, mentre la colossale bestia faceva schioccare le proprie fauci a pochi centimetri dalle snelle gambe dell’avventuriera.

Nell’eccitazione del momento, e temendo che il frastuono potesse strappare i piccoli mostri ai loro sogni, gli avventurieri si affrettarono a guadagnare l’uscita, ma proprio sulla soglia, come un lampo un dubbio attraversò le loro menti: la gemma rossa era certamente stregata, ma quale diavoleria li aveva resi così certi che fosse proprio quella la chiave che cercavano?