Tra neve e sangue

Si conoscono bene tra gli storici le leggende che circondano la stirpe di Acheron, che spalancò i portali del Reame dell’Incubo e annientò qualsiasi nemico; quale uomo assennato infatti avrebbe imbracciato le armi contro coloro innanzi ai quali i demoni stessi erano stati costretti ad inginocchiarsi? Eppure, nemmeno l’immenso potere di quella progenie infernale era sopravvissuto alle sabbie del tempo e solo poche vestigia di quell’era remota sono giunte intatte fino ai nostri giorni.

L’alba sorse infine su Glenthia, mondata dal male che opprimeva lo spirito dei suoi abitanti. Dopo aver a lungo discusso, gli avventurieri decisero di custodire la Pietra del Sangue, in attesa di poterne bandire definitivamente l’antico demone imprigionato al suo interno dalla volontà della stirpe di Acheron. Galaverna asserì che il mostruoso abitante del Reame dell’Incubo non avrebbe potuto manifestare il suo potere sino a quando il grosso rubino fosse stato tenuto lontano dalla linfa vitale degli uomini, e così Brandano lo avvolse numerose volte in un panno, consegnandolo ad Egill perché lo vegliasse.

Su suggerimento di Bartholomeus, gli avventurieri decisero di recarsi al Distretto Settentrionale, per conferire con il capitano Hornfinn e valutare se proseguire nella loro impresa, o fermarsi ad assistere ancora gli abitanti della città. Tuttavia, al loro arrivo videro che delle barricate erano state erette, e che una battaglia sanguinosa era stata combattuta da poco. I grossi corvi banchettavano ancora sulle spoglie dei cadaveri, abbandonati nelle strade.

Ad accogliergli oltre le palizzate del Distretto Settentrionale fu Gareth, canuto armigero della milizia di Glenthia, che raccontò loro dell’attacco delle creature non morte la notte precedente, abbattute dalle lame dei difensori del Distretto Settentrionale. Gli avventurieri ebbero modo di salire sugli spalti delle bianche mura che si ergevano affrontando i venti del nord, ma lo spettacolo che videro fu deprimente: gran parte della maestosa barriera che difendeva Glenthia era stata fatta a pezzi dalla furia del drago, e il cuore della città era adesso esposto a fiere e creature innominabili. Quando gli avventurieri chiesero di Hornfinn, il tono di Gareth si fece cupo, poiché il capitano era morto alcuni giorni prima, stroncato dall’epidemia che dilagava nella città. Al comando del Distretto Settentrionale era adesso Esmeralda, una donna dal temperamento duro come il granito e la cui abilità nella scherma era indiscutibile; Hornfinn l’aveva scelta come suo secondo, sebbene John aveva non poche difficoltà a vederla a capo di un intero Distretto, poiché a dispetto delle sue abilità marziali la donna avevo uno spregiudicato comportamento che mal si accordava alle alte cariche della città. Eppure, nell’incubo in cui era sprofondata Glenthia molte cose erano accadute e John si apprestò ad incontrare Esmeralda nella sua nuova veste di capitano.

Esmeralda accolse l’intera compagnia con una familiarità e una spregiudicatezza tale da suscitare il vivo imbarazzo del gigantesco combattente, oggetto involontario delle attenzioni dell’aggraziata spadaccina, ma nonostante la donna giudicasse follia esplorare le terre settentrionali dopo quello che era successo, accettò di consegnare i destrieri richiesti da Rudolf in cambio di notizie dal vicino villaggio di Muria, della cui sorte nessuno aveva avuto modo o tempo di occuparsi. Egill infine domandò di Turgon, nella speranza che l’esploratore si trovasse ancora nella città, ma Gareth, che non aveva buoni sentimenti da condividere con i mezz’elfi, gli rispose che il ramingo si era allontanato a nord da solo, e che probabilmente era finito in pasto a chissà quali creature tenebrose.

Come concordato in precedenza, Brandano recitò una toccante e stonata messa a beneficio degli abitanti che avevano trovato rifugio nel Distretto Settentrionale. Al termine della cerimonia, l’intera compagnia si premurò di accertarsi che tutto il necessario per la spedizione fosse approntato: il cibo venne caricato su un vecchio mulo, mentre John si assicurò che gli zoccoli del gigantesco sauro che lo avrebbe accompagnato durante il viaggio fossero ben ferrati e di buona qualità.

Le terre settentrionali apparivano silenziose e gelide, ammantate dalla neve e riparate dagli onnipresenti pini-soldato, che si ergevano ovunque intorno al sentiero. Gli avventurieri marciarono per un giorno e una notte, raggiungendo infine il villaggio di Muria; tuttavia, l’insediamento di boscaioli sembrava in un desolante stato di abbandono. In una delle abitazioni, tutte deserte, John trovò traccia di sangue, coagulato da tempo, come se il suo occupante fosse stato colpito, e poi trascinato via. La neve tuttavia aveva coperto da giorni qualsiasi traccia all’esterno, ed era impossibile determinare cosa fosse accaduto di preciso. Nella speranza che qualcuno degli abitanti tornasse alla propria dimora, la compagnia decise di sostare per l’intera notte in una delle abitazioni, tuttavia quando l’alba infine fece capolino dalle alture, nessuno tra i boscaioli si era fatto vivo e così gli avventurieri sellarono i propri corsieri, e proseguirono la loro marcia: la piana di Ebron era ormai a soli due giorni di cammino.

Il giorno trascorse pigramente, ma la temperatura si abbassò di molto, mentre i freddi venti del nord facevano sentire la propria voce, ululando tra le cime del Sivhalla; gli avventurieri marciarono sino a che le tenebre non ammantarono nuovamente quelle terre ghiacciate, prima di concedersi una lunga sosta. Tuttavia, a notte fonda, mentre John ed Egill montavano solerte guardia, l’intero accampamento venne aggredito da un branco di brutali uomini iena del nord, Gnoll armati di lunghe alabarde e flagelli irti di letali spuntoni di metallo. Gli avventurieri, la maggior parte priva delle proprie armature, dovettero battersi disperatamente per non soccombere, imbracciando armi e scudi e rispondendo ai micidiali fendenti degli uomini iena.

Martin, inchiodato al suolo dalla artigliata zampa di uno degli Gnoll, vide l’alabarda levarsi per sferrare il colpo mortale; ma il Creatore favorì il nobile di Ravendish e il colpo venne bloccato da una coppia di lame biache, che guizzarono sopra la testa dello sbalordito combattente. L’ignoto viandante che era giunto in suo soccorso obbligò lo Gnoll ad arretrare, e Martin, rialzandosi, si gettò nuovamente nella pugna.

Egill, dopo aver abbattuto il suo avversario, fronteggiò il gigantesco capobranco in uno spaventoso duello mortale. Affidandosi completamente alla sua fede, il paladino oppose una tenace resistenza contro i terribili colpi del suo nemico, sino a quando i suoi compagni non furono in grado di assalire il capobranco da ogni parte, e porre fine alla sua empia esistenza: la battaglia era stata vinta ma era tempo di contare i caduti.

Brandano e Bartholomeus giacevano circondati dai corpi di una decina di uomini iena. Gli avventurieri sopravvissuti si precipitarono al fianco del crociato, e Galaverna mise mano alle erbe e ai medicamenti in suo possesso: le possibilità che riuscisse a salvare la vita di Brandano erano estremamente ridotte, ma il Creatore non abbandonò il suo favorito quella notte, e il mago riuscì nell’impossibile, strappando il chierico dalle braccia della morte stessa.

Le ferite di Bartholomeus erano altrettanto letali. Galaverna tentò di ripetere il miracolo, ma la sua fortuna si era esaurita. Bartholomeus si volse verso John, e ritenendo che la morte stesse per coglierlo, gli rivelò ciò che sapeva della loro missione, e sulla natura della loro disperata ricerca; le sue ultime parole però furono dedicate a tutt’altro, ed egli sussurrò alle orecchie del bue: “…non dimenticarti di tua madre, John”.

Brandano tuttavia non si era ancora dato per vinto. Raccogliendo tutte le forze, chiamò a sé la benedizione della Croce, e guarì le sue ferite quanto bastava per potersi alzare, e soccorrere Bartholomeus. Innanzi agli occhi esterrefatti dei suoi compagni, Brandano richiuse le mortali ferite di Bartholomeus con un tocco che aveva il sapore della più esotica stregoneria. Il fabbro non riaprì gli occhi, ma nemmeno smise di respirare come era lecito attendersi.

Rudolf nel frattempo fronteggiò lo straniero che aveva combattuto al loro fianco. Il viaggiatore ripose con cura le sue due lame bianche come avorio, e dopo aver osservato il simbolo sullo scudo di Egill disse: “non voglio farvi del male, riponete le vostre armi; poiché odio questi abomini forse più di voi. Il mio nome è Turgon, e le mie lame sono al servizio di coloro che seguono la via della giustizia e del valore”.